Si può essere consapevoli di qualcosa senza esserne consci? La risposta è facile, intuitiva, spero unanime: no. Si può essere consci e non consapevoli di qualcosa? Credo proprio di si.
Mi facevo queste domande, pochi giorni fa, mentre svolgevo una sessione di coaching con un ragazzo, prossimo a terminare il suo Master in BA. All’inizio ho pensato che la ridotta consapevolezza a fronte di una serie di cose che “sapeva” di sé, fosse non tanto una caratteristica personale quanto una prerogativa di alcuni adolescenti. Poi mi sono venute in mente alcune persone che frequento, in contesti professionali e personali. Ed ovviamente mi sono guardata, e mi sono venuti in mente anche alcuni momenti della mia vita…
Il punto su cui vorrei quindi concentrarmi è il seguente.
Partiamo da una premessa, che spero sia condivisibile da tutti: che sia coaching, counseling, psicoterapia, in tutti i casi si tratta di un lavoro “sul-del-con” l’individuo. Certo, nel primo caso coach e coachee lavorano su obiettivi e piani di azione specifici, concreti. Inoltre il coaching verte, innanzitutto – almeno nell’approccio di Rafael Echeverria che ho condiviso durante la mia formazione – sul presente e sul futuro, e sulle potenzialità e risorse, più o meno nascoste, del coachee.
L’indagine sul “perché” e sulla “patologia” la lasciamo, quindi, giustamente ai contesti strettamente psicologici. E dal momento che per alcuni anni ho esercitato anche la professione di psicoterapeuta, ci tengo ad aggiungere che questa distinzione è stata uno dei miei apprendimenti e delle sfide più grandi affrontate durante il percorso di certificazione da coach.
Ma torniamo alla domanda principale che vorrei offrire come spunto di riflessione.
Sia il coaching che la psicoterapia lavorano sullo sviluppo della consapevolezza. E non so voi, ma in entrambi i casi, mi sono spesso incontrata-scontrata, da psicoterapeuta prima e da coach oggi, con la dinamica essere consci-essere consapevoli di alcuni aspetti o dinamiche di sé, di chi sedeva di fronte a me.
Penso che a volte le persone, come io stessa ho fatto, confondano l’uno con l’altro e allora portare avanti un processo di chiarezza, capace di trasformazione e sviluppo personale, diventa molto più complicato, non scontato.
Sto parlando di quelle situazioni in cui all’offerta di qualsiasi altro punto di vista, diverso dal proprio, l’altro (ad esempio il coachee come anche un amico) ti risponde che già lo conosce, che già lo aveva “pensato”. E sottolineo questa parola perché ritengo possa essere una delle chiavi di lettura per distinguere l’esser consci dall’essere consapevoli di qualcosa, risorse, difficoltà, pattern comportamentali. In questi casi a volte poi la persona afferma anche di aver fatto diversi cambiamenti alla luce di queste cose nuove che “sa”. Eppure è lì, davanti a te, oppure semplicemente dall’altra parte del telefono o seduto con te al bar: sa qual è il suo nuovo obiettivo, quali risorse ha a disposizione e quali zavorre gli impediscono di raggiungerlo. Ma l’obiettivo, qualsiasi esso sia, ed il cambiamento che esso comporta, resta lì: irraggiungibile.
A dispetto delle nuove “conoscenze”, nuovi modi di sentirsi o di agire restano comunque fuori dalla porta. E a volte c’è chi addirittura preferisce “cambiare obiettivo”, magari più alla portata: chi non lo ha mai fatto alzi la mano…
Difficile dire in che modo si passi dalla condizione dell’essere consci di una cosa (dinamica interpersonale, obiettivo, risorsa, zavorra etc.), all’esserne consapevoli. Per chi è pratico del ciclo di Kolb, ho la sensazione che questa dialettica possa essere collocata a metà strada tra la terza e la quarta fase, tra astrazione/concettualizzazione e sperimentazione.
Come dicevo, cosa, esattamente, faciliti questo passaggio, non lo so. Non lo so come essere umano né come Coach. Ma so che esiste.
E’ un tema che trovo estremamente affascinante sia a livello professionale che personale. Probabilmente anche perché ricordo molto bene i momenti della mia vita in cui, approfondendo alcuni aspetti di me (ovviamente quelli meno piacevoli…), mi ritrovavo a pensare: “Ma come è possibile? Ormai ho ben chiara la situazione, ormai certe cose ‘le so’, eppure…”.
Eppure nulla di fatto. Nessun cambiamento. Mancava qualcosa, da qualche parte.
Se dovessi rappresentare visivamente questi due concetti, l’essere consci e l’essere consapevoli di qualcosa, collocherei il primo nella testa, il secondo nella pancia. Non conosco la strada che collega l’una all’altra, né so come a volte riusciamo a costruirla.
Ma sono convinta che solo quando la testa trova la strada per arrivare fino alla pancia, diventiamo davvero consapevoli di qualcosa. E che solo allora, sulla base di questa nuova, più profonda consapevolezza (non semplice “sapere”), che diventiamo capaci di pensare, di sentire, di agire, di raggiungere obiettivi diversi. Non è forse così?
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