COMUNICAZIONE EFFICACE  & PSYCHOLOGICAL SAFETY

Una infermiera si accorge che il paziente, dopo essere stato visitato dal chirurgo al rientro dall’operazione, inizia a mostrare delle macchie strane sulla pelle ma tiene per sé questa osservazione temendo che il chirurgo la “prenda sul personale”. Il tecnico si accorge di un valore inusuale nel referto riconducibile a un non corretto funzionamento della macchina ma non dice nulla. Nessuno dei due vuole apparire critico, incompetente o presuntuoso. 

Quando evitiamo di esprimere il nostro punto di vista, di sollevare dubbi o fornire informazioni alternative, ci garantiamo una certa sicurezza personale. Ma se tutti gli infermieri, i tecnici e gli operatori sociosanitari non si sentissero mai “al sicuro” nel fornire informazioni o opinioni contrarie a quelle dei medici, cosa succederebbe?

Anche dalle analisi degli incedenti aerei, chimici, nucleari, persino spaziali, emerge come nella maggior parte dei casi, molti dipendenti fossero in possesso di informazioni che avrebbero potuto prevenire o quantomeno attenuare le conseguenze dell’incidente. Ciononostante, quelle informazioni vitali non sono state comunicate ai livelli superiori o, se lo furono, sono state ignorate.

Spesso quando parlo con i manager mi dicono di essere “aperti alla comunicazione”, capaci di ascoltare. Anche l’AD di una società mi ha detto: “Sono certo che in questa azienda le persone si sentano libere di parlare apertamente sia con me che con gli altri responsabili”. Peccato che quando ho interpellato i diretti interessati, questa non sia stata la “realtà” emersa. E, come vedremo, ascolto e feedback non sono solo alcuni dei pilastri della comunicazione efficace, ma sono anche alla base del nostro sentirci “sicuri/e” nell’esprimere opinioni, fare proposte o ammettere i miei errori.

Restando in silenzio, evitando di mettere in discussione lo status quo non solo chiudiamo le porte del benessere psicologico – vivere in un perenne stato di allarme produce una condizione psicofisica di stress cronico – ma anche quelle di una possibile risoluzione collettiva dei problemi. Eppure sappiamo bene che nella complessità ciò significa andare incontro a un inevitabile fallimento (sottolineo fallimento e non errore, come vedremo tra poco). Una situazione si dice complessa, infatti, quando ci sono molte variabili in gioco, non tutte note, e la cui interazione dà esiti spesso non prevedibili. Una strada percorribile, quindi, è riuscire a dar vita alla cosiddetta intelligenza collettiva vale a dire a una “intelligenza distribuita centrata sulle relazioni trasversali piuttosto che sulle gerarchie, sullo scambio di conoscenze” (P.Levy). Non è prerogativa degli esseri umani. Anche molti mammiferi rivelano intelligenza collettiva quando, di fronte a un predatore, il gruppo si muove in modo coordinato, massimizzando la probabilità di fuga dei suoi membri. O pensiamo all’incredibile movimento di uno stormo di uccelli.

Cosa intendiamo precisamente con la parola “psychogical safety”?

Il costrutto ha iniziato ad attirare l’attenzione del grande pubblico grazie alle ricerche condotte sul finire degli anni novanta da Amy Edmodson.

Cosa notò la ricercatrice di così interessante? Con nostra grande sorpresa scoprì che le equipe ospedaliere dalle prestazioni più elevate, mostravano tassi di errore rilevati più alti rispetto a quelli dei team meno performanti. Sottolineo le parole “tassi di errore rilevati”, cioè dichiarati, noti. In pratica le prestazioni migliori caratterizzavano i team in cui gli errori venivano registrati perché, va da sè, se ne poteva parlare liberamente e grazie ad essi migliorare. Ecco così spianata la strada per apprendimento ed elevata performance. Secondo l’autrice, la sicurezza psicologica corrisponde a “un clima in cui le persone si sentono a proprio agio nell’essere (e nell’esprimere) se stesse (…). Consiste in convinzioni su come gli altri reagiranno quando ci si mette in gioco, ad esempio facendo una domanda, cercando un feedback, segnalando un errore o proponendo una nuova idea” (Psychological Safety, Trust, and Learning in Organizations: A Group-level Lens – 2003).

In seguito, la Edmodson analizzò un programma di cambiamento organizzativo in una grande azienda manifatturiera rivelando che la sicurezza psicologica era associata all’accettazione e all’utilità percepita del programma. Si, la sicurezza psicologica favorisce anche il change management, lo sapevi?

Ma che rapporto c’è tra fiducia e sicurezza psicologica?

È una distinzione su cui non nego di aver riflettuto a lungo e su cui – mi permetto in “sicurezza” di dire – non so ancora quanto concordi pienamente. Ad ogni modo la ricercatrice sottolinea tre aspetti.

Partendo dal presupposto che entrambi i costrutti implicano la volontà di essere vulnerabili alle azioni altrui, la prima differenza riguarda il fatto che mentre “la sicurezza psicologica è particolarmente importante per i piccoli gruppi, la fiducia è particolarmente rilevante per la relazione diadica (…)”, ad esempio tra due colleghi o con un fornitore.

In secondo luogo, la fiducia viene equiparata al concedere agli altri il beneficio del dubbio, mentre nel caso della psycholigcal safety, la questione è se gli altri ci concederanno il beneficio del dubbio quando, ad esempio, commettiamo un errore.

Terzo. La sicurezza psicologica considererebbe le conseguenze interpersonali a breve termine dell’azione intrapresa mentre la fiducia implicherebbe una visione più allargata nel tempo.  

Al netto di questa differenza e della vostra opinione in merito, una delle domande più importanti da porsi è certamente questa: come promuovere la psychological safety?

Molti autori concordano nel sottolineare il ruolo del leader. Sono le sue risposte agli eventi e ai comportamenti dei collaboratori a influenzare la percezione che un gruppo ha di un comportamento considerato come appropriato e sicuro. Per questo chi ricopre ruoli dirigenziali dovrebbe in primis fare da role-model. Può farlo in vari modi, vediamone qualcuno.

Innanzitutto mostrandosi disponibile, “avvicinabile” dai collaboratori. La facilità con cui un dipendente può chiedere e ottenere di parlare con il suo responsabile è direttamente proporzionale al grado di sicurezza psicologica. In secondo luogo, un buon leader che vuole contribuire alla sicurezza psicologica, dovrebbe impegnarsi a spiegare il “perché” delle cose, degli obiettivi, delle strategie (se vuoi approfondire come, leggi qui). Diverse ricerche evidenziano come in assenza di un obiettivo realmente condiviso, la sicurezza psicologica non ha gli stessi effetti sulla motivazione al lavoro e, quindi, sulla performance.

Altra cosa importante sottolineata da molti è la capacità di chi guida di invitare esplicitamente a fornire input e a ricevere feedback. In altre parole, sa fare un uso intelligente dell’ascolto attivo dicendo, ad esempio, “Cosa ne pensate di questa nuova strategia?”, “Quali dubbi, perplessità avete in merito alla mia proposta?”, “Come sta andando secondo voi?” “Cosa fareste per migliorare questa situazione?”. In pratica ricerca attivamente informazioni ascoltando i suoi collaboratori.

Perdonatemi se sottolineo molto l’importanza della comunicazione (chi mi conosce sa che me ne occupo spesso). D’altra parte, è innegabile che un leader capace di fare da role-model sulla psychological safety è prima di tutto una persona in grado di comunicare in modo efficace vale a dire ispirare, motivare, dare e ricevere feedback, ascoltare attivamente. Non solo. Nella complessità, nessuno da solo può sapere tutto. La ricerca di aiuto è quindi fondamentale. Un leader, come qualsiasi membro del team, può chiedere agli altri di fornire informazioni o prospettive aggiuntive per risolvere un problema impegnativo. Per chi non lo conoscesse, suggerisco di leggere a questo proposito l’articolo sull’azienda IDEO apparso nel 2014 sull’HBR

Se nella complessità non è possibile risolvere le cose da soli, allora quando un leader si accorge di aver sbagliato, lo ammette pubblicamente dimostrando la sua vulnerabilità, sta compiendo un passo verso la trasparenza e la sicurezza psicologica perché la prossima volta che i membri del gruppo sbaglieranno, se ne ricorderanno e si sentiranno più a loro agio nel parlarne. Ricordiamoci che anche l’arte dello storytelling e delle presentazioni efficaci affonda le radici nel concetto di vulnerabilità.

Dipende tutto dalla leadership?

Assolutamente no! La ricerca del feedback dovrebbe diventare un modus operandi su cui tutti sono allineati. Così come nel parlare degli errori commessi. A livello organizzativo si possono introdurre dei “Practice fields” vale a dire forum deliberatamente allestiti per esercitarsi piuttosto che per agire, e riflettere sui risultati (Senge, 1990). Sappiamo però quanto sia difficile “apprendere” per i manager perché non hanno contesti di pratica “sicura” come quelli utilizzati dalle squadre sportive, dalle orchestre o dagli equipaggi degli aerei. A loro viene chiesto di apprendere sul campo, quello reale, dove la posta in gioco è alta. Ecco perché inserire a cadenza regolare simulazioni, meeting fuori sede creati ad hoc, dove poter riflettere è fondamentale; un po’ come nelle sessioni mediche “dry run” in cui l’équipe esegue l’operazione senza la presenza del paziente o le retrospettive del mondo agile. Anche tutte le politiche attivate sul tema dell’inclusione spingono verso lo stesso obiettivo.

Come immaginerete una descrizione esaustiva di tutto ciò che possiamo fare per promuovere un clima psychological safe esula dalle possibilità di un articolo. È importante però sottolineare come sviluppando alcune competenze comunicative è possibile già compiere i primi passi importanti in quella direzione.

Nel prossimo articolo approfondiremo quali pratiche possono essere utilizzate nel contesto agile per promuovere la psychological safety e il rapporto tra sicurezza psicologica e innovazione.

Se sei il responsabile o il membro di un team e questo tema ti risuona molto, condividi questo articolo con i tuoi colleghi e avvia una conversazione sulla sicurezza psicologica.

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