Come ho già accennato in altri articoli a mio parere alla base della comunicazione efficace, del “saper comunicare” in generale, vi sono principi, quindi anche tecniche da essi derivati, che prescindono dal “tipo di comunicazione” di cui stiamo parlando e dalle sue finalità: che si parli di Public Speaking, Storytelling, Comunicazione Persuasiva o Strategie di Marketing, la regola da tenere sempre a mente, infatti, è che le emozioni svolgono un ruolo centrale. E saper parlare “con e ad” esse, è di fondamentale importanza per il successo dei nostri messaggi.
Ce lo dimostrano le Neuroscienze. E lo testimoniano l’efficacia delle tecniche al momento più in voga che, non a caso, mirano tutte a dialogare con il cervello emotivo. Perché come dice A. Damasio “non esiste un pensiero libero da emozioni”, pertanto parlare il solo linguaggio della logica, dei meri fatti, serve a poco.
Quello che finora non ho ancora avuto modo di sottolineare è che la capacità di comunicare in modo efficace non può prescindere dall’essere autentici (vi ricordate il potere della vulnerabilità?). E’ l’autenticità, come il mostrare la propria vulnerabilità che viaggia sullo stesso binario, a trasformare le nostre parole in qualcosa di coinvolgente, emozionante anche per l’altro. E’ impossibile, ad esempio, cercare di motivare i propri collaboratori, se non crediamo davvero nel loro valore, se non siamo davvero autentici prima di tutto con noi stessi, in questo nostro proposito motivazionale. Allo stesso modo un racconto aziendale per essere efficace, deve essere innanzitutto autentico. E quando lo è, i risultati sono evidenti.
Prendo spunto, a questo proposito, da quanto scritto da Michela Fiorucci, Brand Manager di Tenute Silvio Nardi, a conclusione dell’ultimo Workshop sullo “Storytelling del Vino” che ho avuto il piacere di organizzare insieme a Winejob a Firenze, qualche settimana fa.
A proposito degli spunti tratti a partire dalla giornata formativa, Michela scrive: “Domenica scorsa, per la giornata dedicata alle Cantine Aperte ho incontrato molte persone ed ho raccontato l’azienda in modo diverso, molto più personale, mettendo in evidenza soprattutto quegli aspetti che nel corso degli anni hanno emozionato anche me. Ne ho trovato giovamento io per prima…questo te lo devo dire…Ho raccontato una “bella storia”, o almeno così anche le persone hanno riferito nei loro commenti”.
Prima di approfondire il tema in oggetto, ci tengo a fare un breve inciso. Durante i miei corsi ripeto spesso, sia all’inizio che alla fine, che la formazione ha dei “limiti”, limiti che possono dipendere ovviamente dalle competenze del trainer e dal tempo a disposizione, ed anche dalla voglia che hanno i partecipanti di sperimentare qualcosa di diverso il giorno dopo la fine del percorso, quando cioè tornano sul campo. Io stessa alla fine di una formazione o della lettura di un libro pieno di spunti interessanti, penso che molta dell’efficacia di quanto ho appreso a livello teorico risieda nell’impegno che scelgo di prendere con me stessa nell’iniziare a sperimentare subito le nuove tecniche (ed anche io non sempre lo scelgo…). Questo per dire che al di là dei contenuti e delle esercitazioni condivise durante il workshop, è davvero la “Michela” della situazione ad aver fatto la differenza.
Ma torniamo al tema principale.
Durante il workshop ho evidenziato come, a mio parere, per creare un racconto aziendale capace di coinvolgere sia fondamentale concentrarsi sull’individuazione di un archetipo di business ben preciso (M. Mark & C.S. Pearson) così come di una story utility, vale a dire di un messaggio formativo-trasformativo della “storia” che si riveli di una certa “utilità” per l’audience di riferimento. Per farlo ovviamente occorre guardarsi dentro, come azienda e come persona parte di quella azienda, indipendentemente da ruolo e funzioni in essa ricoperte.
Le “storie” che ci coinvolgono di più, infatti, sono proprio quelle in cui possiamo immedesimarci – quindi di emozionarci – storie da cui possiamo trarre qualcosa, una sorta di “insegnamento”. C.G. Jung sosteneva che i miti sono stati creati dall’uomo come mezzo per aiutarlo ad affrontare i propri drammi esistenziali. Ogni mito, infatti, ci rivela un qualche insegnamento. E non è un caso se J. Campbell sia giunto alla conclusione che la maggior parte di essi racconta un “viaggio dell’eroe”, quello stesso viaggio dell’eroe che poi C. Vogler ha approfondito nel suo famoso e omonimo libro oggi tanto amato dagli esperti di Storytelling.
Come accennavo poco fa, se è vero quindi che un racconto aziendale, come un mito, debba essere “utile” a chi lo legge o lo ascolta, è anche vero che questo messaggio chiave non possa prescindere dall’autenticità del racconto stesso.
Mi spiego meglio.
Quando Michela scrive: “ho raccontato l’azienda in modo diverso, molto più personale, mettendo in evidenza soprattutto quegli aspetti che nel corso degli anni hanno emozionato anche me…Ho raccontato una bella storia, o almeno così anche le persone hanno riferito nei loro commenti”, dimostra come e quanto sia stato proprio ritrovando se stessa nella storia dell’azienda che rappresenta – ed essendo stata così “più autentica” nel racconto – che è riuscita ad offrire all’altro la possibilità di fare altrettanto, cioè di immedesimarsi, di coinvolgersi di più. In altre parole, nel raccontare Tenute Silvio Nardi in modo più personale, “mettendo in evidenza maggiormente gli aspetti che nel corso degli anni hanno emozionato anche me”, Michela è riuscita a coinvolgere di più proprio perché si è coinvolta di più (scusate il gioco di parole).
L’autenticità del racconto le ha permesso di emozionarsi e così di regalare ai suoi ospiti la possibilità di fare altrettanto. Perché è quando ci lasciamo coinvolgere “in e da” ciò che stiamo dicendo che riusciamo a catturare l’attenzione dell’altro. E indipendentemente dal livello di consapevolezza con cui Michela ha scelto alcuni di quegli “aspetti che nel corso degli anni hanno emozionato anche me”, mi permetto di aggiungere che un possibile criterio di selezione da lei utilizzato sia stato il fatto di ritrovare ogni giorno i valori dell’azienda personificati nel suo modus operandi, valori in cui Michela, ogni giorno, si rispecchia.
L’invito quindi è a scavare dentro di noi, cercando nelle storie che raccontiamo – siano esse professionali che non – quel qualcosa in cui ci ritroviamo: emozioni, valori, messaggi in cui rispecchiarsi e l’altro possa fare altrettanto.
Perché una delle armi più potenti che abbiamo a disposizione per riuscire a coinvolgere chi abbiamo di fronte con le sole nostre parole è l’essere autentici.
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