L’INTELLIGENZA EMOTIVA DELLA PAURA

Può essere la paura un’emozione “intelligente”? Può esserci utile a, servire per?

Il modello “6seconds” sull’intelligenza emotiva, scelto anni fa in virtù della sua estrema chiarezza ed applicabilità (non me ne vogliano gli appassionati di D. Goleman) ci insegna che tutte le emozioni sono informazioni vale a dire tutte le emozioni sono utili a, servono per. Avvicinarsi al tema dell’intelligenza emotiva significa partire da questo assunto di base. Se volessimo ridefinirlo con le parole della resilienza potremmo dire che non esistono eventi negativi o positivi ma solo piacevoli o spiacevoli, facili o difficili, poiché tutti gli eventi recano in sé una possibilità di apprendimento e quindi di cambiamento, ossia una informazione in qualche modo utile per noi. 

Come poi ci insegna P. Ekman, indipendentemente da razza, religione, continente, tutti condividiamo l’espressione ed il riconoscimento di almeno sette emozioni di base. Tra queste, appunto, la paura. Nessuno di noi, infatti, è mai andato a lezione di paura – e per fortuna! Eppure tutti sappiamo esprimerla e lo facciamo nello stesso identico modo. Siamo in grado di riconoscerla in chiunque, anche quando non appare così manifesta. Nasciamo con la capacità innata di percepirne anche le più sottili manifestazioni, in noi e negli altri. E non è un caso che la paura sia altamente contagiosa. Ognuno di noi ne avrà avuto certamente diverse esperienze personali, come anche del contagio emotivo legato all’ansia tanto quanto alla gioia.  

Ma a che ci serve la paura?

Bhe, da piccoli ad evitare i pericoli e a non ripetere esperienze dolorose/pericolose. In teoria da adulti svolge la stessa funzione sebbene a volte certe esperienze dolorose continuiamo a ripeterle…

E’ a partire da questa domanda comunque che qualche giorno fa è scaturita una riflessione.

Lo scenario: dovevo rifare una Tac, la terza in poco tempo. E’ vero, il circolo vizioso delle aspettative negative mi aveva già mal disposto. Ne ero cosciente ma non consapevole. Mi aspettavo quindi di aver paura. Ed appena parcheggiata l’auto, mentre entravo in ambulatorio, il mio cuore ha cambiato frequenza. Lo so, per molti una Rmi è più “fastidiosa” ma quando ripeti diversi esami in un arco di tempo ristretto, alla fine la parte più razionale del nostro cervello razionale fatica a “ragionare” e va un po’ in confusione. 

La sequenza, in breve, è stata pressappoco la seguente. Sala d’attesa e comparsa di tachicardia. Nel frattempo una signora, che aveva appena concluso una Rmi, viene richiamata ed invitata ad attendere. Fosse stata una lastra avrei capito l’attesa (a volte aspetti mentre verificano soltanto la qualità delle immagini) ma per una Rmi era un po’ strano. E infatti di lì a poco la signora mi dice: “Ma le pare che mi dicono così?! Mi fanno preoccupare!”. Le rispondo che forse è solo per verificare le immagini perché questo era il mio augurio…Fatto sta che questa scena rincalza la mia tachicardia. 

Concentrarsi sul respiro quando il cuore ha raggiunto un numero elevato di battiti al minuti so che è possibile. Ma non lo è sempre per me, anzi. Personalmente riesco a rallentare un po’ la frequenza quando non supera una certa soglia. Per questo anche durante i miei corsi sull’intelligenza emotiva ricordo sempre che se vogliamo cercare di gestire il cosiddetto “sequestro emotivo” possiamo farlo solo all’inizio. Superati i primi istanti (chissà se sono davvero i “6secondi”…) il nostro cervello razionale è messo a tacere da quello emotivo. E non abbiamo più via di scampo. 

E le neuroscienze, ormai, ce lo hanno ampiamente dimostrato. 

Ovviamente anche l’indagine diagnostica che segue la vivo con una certa paura. Ma non è stata l’esperienza in sé della Tac ad aver stimolato la mia riflessione ma quello che è successo poco dopo, mentre uscivo. In quel momento mi è sembrato di intravedere l’“intelligenza” di quella emozione, la paura, e mi si è aperta la strada verso questa riflessione.

In passato, come forse anche a molti di voi è accaduto, avrei provato rabbia o forse vergogna per quella paura. In virtù dell’“insegnamento 6seconds” ho sentito, invece, che quell’emozione rappresentava davvero una informazione e mi offriva così una chiave di lettura diversa, inaspettata. Prendendo a prestito gli insegnamenti delle filosofie orientali, potrei dire che anziché fuggire o resistere alla paura con rabbia o vergogna, ho avuto modo di accogliere quell’esperienza di paura per quello che era stata

La paura è stata guardata ed accolta e ciò ha generato tenerezza nei confronti di me stessa. Perché in fin dei conti non c’è nulla di male nell’aver paura di qualcosa. Il punto è cosa ne facciamo di quella emozione, quale valore le diamo, quale è il percorso emozionale che ne segue.Volendo essere puramente accademici direi che la paura insieme all’accoglienza hanno dato vita alla tenerezza – chissà se Plutchick sarebbe d’accordo. 

Ho continuato quindi a riflettere.

La maggior parte di noi si aspetta di essere trattato con tenerezza dagli altri. Ma quanti si “aspettano” di farlo nei confronti di se stessi?

Credo pochi. Ed allora mi sono chiesta: cosa ci impedisce di provare tenerezza nei confronti di noi stessi di fronte ad un sentimento di paura?

Credo che una delle possibili risposte sia la “paura della paura”. Perché quando riusciamo a fermarci un attimo, ad usare davvero la nostra intelligenza emotiva per guardare alle nostre paure, in un attimo ci rendiamo conto di quanto spazio sia in realtà occupato dalla prima Ed il fatto stesso di rendercene conto ci permette di guardare alla paura della paura in modo diverso aprendo così nuove possibilità di pensare e di sentire. Uno spazio di possibilità abitato appunto dalla tenerezza.

Credo che la tenerezza, come la gratitudine per ciò che si è, ciò che si ha, in contrapposizione alla frustrazione, alla rabbia o alla tristezza per ciò che non si è o non si ha, sia un’emozione salutare, estremamente “intelligente”.

Penso anche che ognuno di noi viva spesso situazioni in cui, grazie alla sua intelligenza emotiva, potrebbe trasformare la sua paura, e la paura della paura, in un’opportunità innanzitutto di tenerezza per se stessi (quindi poi anche per gli altri…). Ciò significa prendersi cura della propria vulnerabilità qui intesa non come mancanza piuttosto come assenza di separatezza dalla nostra vera natura. Ma ciò è possibile solo se da quella paura non fuggiamo, non le resistiamo, se non reagiamo con un moto di insofferenza. 

Usare la nostra intelligenza emotiva significa non mostrarsi “insofferenti” nei confronti della paura bensì osservarla come se fosse una frase da decifrare, una “informazione” appunto, un qualcosa che ci aiuta a capire altro di noi, a volte anche attraverso la riscoperta della tenerezza nei confronti di se stessi.

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