RESILIENZA & “ACCETTAZIONE”

Quando siamo resilienti siamo proattivi, respons-abili, capaci di porci domande del tipo: “Cosa posso imparare da questa esperienza?”, “Come posso guardare a questa situazione per sentirmi diversamente?”.

Ma come ho scritto più volte, la resilienza è fatta anche di accettazione. Badate bene, non rassegnazione, ma accettazione, una competenza che richiede una certa “attività”, un senso di sé agente.

Quando ero piccola, sui banchi di scuola una mia compagna di classe aveva disegnato a matita questa scritta sul banco che molti di voi conosceranno: “…dammi la forza di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che possoe la saggezza per conoscerne la differenza”.

Ecco, a distanza di quasi trent’anni mi ritrovo a sottoscrivere questa affermazione. Mi spiego meglio.

Quando Nelson Mandela era chiuso nella sua cella di sei metri quadrati (ci rimase per circa vent’anni e come ha fatto non lo so nemmeno io!), certo non trovava la forza di “sopravvivere” nella sola convinzione che, prima o poi, sarebbe riuscito a scappare o sarebbe stato liberato. Sapeva quello che poteva cambiare e ciò che, viceversa, era chiamato ad “accettare”. E tra le cose che certamente sapeva di non poter cambiare o decidere era se e quando sarebbe stato liberato. Mentre tra le cose che certamente sapeva di poter cambiare era il suo modo di guardare – quindi vivere – all’esperienza che stava facendo. Certo, era forte di una “visione” profonda, Laloux direbbe di un “proposito evolutivo”, che gli permetteva di reincorniciare la sua esperienza attribuendo ad essa un significato molto alto. Ma ognuno può esplorare la propria visione di vita…di esistenza…

Ma torniamo appunto all’accettazione.

“Accettare” in senso resiliente, come anche nell’accezione delle filosofie orientali, significa non imporre alla realtà le proprie opinioni, non “attaccarsi” ai proprio pensieri, alle proprie credenze manipolando la vita affinché sia come noi vogliamo.

La vita a volte, o spesso, non è così come vogliamo. E certamente non lo è in questo momento. 

Pensiamo molto, e pensiamo molto “sulla vita”. Per questo, spesso, la viviamo poco. Non c’è nulla di male nel pensare, nell’avere opinioni. Il problema è quando questi pensieri, questi desideri di una vita diversa da come la vorremmo, si “solidificano”. In altre parole il problema – e la sofferenza che ne consegue – nasce nel momento in cui diamo talmente tanto spazio a questi pensieri da finire per identificarci con essi.

Praticare, sviluppare la propria resilienza è accettare la realtà così come è, significa smettere di proiettare le proprie preferenze ed avversioni nella realtà, rompere i nostri schemi mentali che tante possibilità di sentire, di pensare, di agire diversamente ci impediscono. 

E’ proprio in questa rottura che risiede il nostro essere resilienti e la nostra possibilità di vivere la vita appieno, in tutta la sua ricchezza, al netto della piacevolezza-spiacevolezza della situazione attuale. Ma prima ancora di riuscire ad interrompere questi schemi dobbiamo ovviamente esserne consapevoli. Perché solo da tale consapevolezza può nascere una salutare intenzione. 

Non credo, quindi, sia il momento di dire semplicemente “andrà tutto bene” o del pensare positivo vecchio stile. La resilienza non ruota attorno al desiderio che la vita sia come vogliamo o che prima o poi lo sarà. Victor Frankl di certo non voleva vivere la sua vita in un campo di sterminio eppure, se leggete i suoi scritti, ritroverete l’essenza del pensare, del sentire, dell’agire resiliente.

Si tratta dunque di operare uno spostamento di asse completo: accettare la vita – la situazione attuale – così come è per incontrarla in tutta la sua pienezza. Anche se causa sofferenza.

Lo so, spaventa…Ma possiamo imparare a gestire le nostre emozioni solo riconoscendole. E di nuovo, come dico spesso durante i miei corsi sulla resilienza: “Non esiste persona resiliente che non sia anche emotivamente intelligente”.

Pensiamo anche al rapporto a due, ad una relazione complicata, che non è così come vorremmo. Sentimentale, amicale, professionale, tutti ne abbiamo almeno una.

Ecco quando ci irrigidiamo nei confronti di qualcuno perché ha una opinione diversa dalla nostra cadiamo nello stesso errore di non accettazione, di non accoglienza. Potremmo chiedere: “Come mai la pensi diversamente da me?”, “Su quali fatti fondi questa tua opinione?”. Eppure istintivamente tendiamo solo a riproporre all’altro argomentazioni logiche volte a suffragare la nostra teoria. In altre parole anche nella relazione con l’altro incontriamo le stesse difficoltà che incontriamo, oggi, nell’affrontare la realtà del momento: lasciar andare i nostri desideri, le nostre aspettative, le nostre opinioni, accoglierle per quello che sono…

Nel dialogo interpersonale – come nel monologo interiore che caratterizza il vortice dei pensieri di questi giorni e che ostacola la nostra resilienza – è evidente quindi quanto siamo attaccati, quanto tendiamo ad indentificarci con le nostre credenze, e quanto questo attaccamento, questa totale immersione nei nostri pensieri ci impedisca la conoscenza dell’altro..tanto quanto della vita.

Concludo questa breve riflessione con l’invito a ricordarci che è solo quando ci accorgiamo di alimentare una visione autoreferenziale della realtà che diventiamo più liberi, più resilienti…

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