Nel 2012 Google ha condotto una ricerca interna denominata “Progetto Aristotele”,
volta all’individuazione di quegli elementi che più di altri caratterizzano i team dalle performance più elevate. I dati così raccolti hanno evidenziato che più che la composizione del gruppo in termini di competenze, uno dei migliori indici predittori della performance è la percezione che i membri hanno di poter chiedere aiuto, di sbagliare, di assumersi dei rischi proponendo nuove idee senza il timore di essere giudicati come presuntuosi o, in caso di errore, incompetenti. In altre parole stiamo parlando della cosiddetta cultura “safe to fail”.
Come sappiamo l’innovazione deriva dalla sperimentazione continua perché, come scrisse J.Bezos in una lettera agli azionisti del 2005: “Un ambito nel quale ci distinguiamo è il fallire. Per inventare devi sperimentare. Se sai in anticipo come andrà a finire non è un esperimento. La maggior parte delle aziende abbraccia il concetto di innovazione ma non vuole passare per la trafila degli esperimenti falliti necessari per raggiungere l’obiettivo”.
Ma la possibilità di sperimentare, e l’opportunità di migliorarsi e crescere che ne consegue, possono nascere solo all’interno di una cultura in cui chi compie un errore non si sente in colpa o peggio un “fallito”. Non esiste quindi apprendimento tantomeno innovazione senza una cultura cosiddetta “safe to fail” ben evidenziata appunto dal progetto Aristotele.
Pochi giorni fa ho avuto il piacere di intervistare Milena Bertolini, CT della nazionale femminile di calcio che dopo vent’anni spesi sul campo, nel 2001 ha scelto di intraprendere la carriera da allenatrice assumendo poi il ruolo di CT nel 2017. Sin dalle prime battute emerge come alla indubbia competenza, professionalità, si associa anche una grande umanità. E a mio parere la prima è tale anche grazie e attraverso la seconda. Non è un caso che fin dagli esordi da CT sia riuscita a ottenere grandi risultati “concentrandosi innanzitutto sulle relazioni – tra e con le giocatrici – prima ancora che sugli obiettivi”.
Molti sono gli spunti che ha offerto e che potremmo rileggere in chiave organizzativa (dal tema della fiducia a quello della comunicazione e dell’importanza dell’ascolto attivo nella gestione dei collaboratori) ma quello che vorrei ora condividere, e che ci riporta al tema del post, sono alcune sue riflessioni sul tema dell’errore.
Partiamo da una delle sue prime affermazioni in merito: “il modo in cui le giocatrici vivono l’errore è anche un po’ uno specchio di come lo vivi tu in prima persona. E per me l’errore non solo è inevitabile ma è addirittura indispensabile per la crescita e l’apprendimento”.
In questo modo, come accade nelle cosiddette organizzazioni Agili, il focus attentivo non è sulla colpa o sul senso di fallimento bensì sull’apprendimento e miglioramento continuo. Abbiamo anche un detto popolare che ce lo ricorda, “sbagliando si impara”, eppure facciamo spesso fatica a tradurlo in un sentire e agire quotidiano.
Che una cultura “safe to fail” sia l’unica a permettere il vero apprendimento ce lo confermano anche le neuroscienze.Ogni qual volta il nostro cervello si sente in pericolo – come ad esempio quando veniamo accusati di aver sbagliato – automaticamente si mette in modalità allarme.“Guarda che errore che hai fatto”, ad esempio, è una di quelle frasi che non fa altro che attivare la nostra amigdala, una struttura del cervello limbico che “mettendoci in allarme”, ci prepara alle classiche risposte di sopravvivenza evolutiva del tipo combatti-fuggi-immobilizzati. Questa attivazione limbica tende ad ostacolare il funzionamento della corteccia prefrontale vale a dire di quella parte del cervello più evoluta deputata al pensiero complesso.
Quando Milena rivede insieme alle sue ragazze alcuni errori commessi in partita o in allenamento, tipicamente ciò che emerge all’inizio è un atteggiamento difensivo ben noto anche all’interno delle aziende (come nella vita in generale): “non è colpa mia…è che…” seguito dal far riferimento a situazioni, difficoltà esterne o peggio al comportamento altrui.
Ed è a questo punto che Milena agisce proprio con l’intenzione consapevole di svincolare l’errore da qualsiasi tendenza alla colpevolizzazione e per evitare questa dinamica colpevolizzante – capace di ostacolare l’apprendimento poiché non ci fa “sentire al sicuro” – allora chiede: “Cosa non ha funzionato? Quali possibilità non abbiamo visto?”. In altre parole quello che, attraverso questa domanda, sposa e offre alle sue ragazze è un cambio di prospettiva sull’errore aprendo così al dialogo ed alla riflessione costruttiva comune da parte di tutti i soggetti coinvolti in quella data azione.
Cosa ci impedisce di fare lo stesso con colleghi e collaboratori per non dire anche con figli e cari?
Spesso poi ci si concentra solo su ciò che non ha funzionato o ha funzionato meno. Anche il mindset Agile sottolinea quanto sia importante capitalizzare processi e dinamiche che hanno portato al successo. Analogamente Milena ci ha raccontato del tempo e delle energie investite nel rivedere e sottolineare alle sue giocatrici anche attitudini e comportamenti che in partita o in allenamento hanno funzionato bene.
Spesso in azienda si parla di feedback costruttivo sottintendendo quello negativo. Quanto tempo e quale competenza abbiamo invece nell’offrire anche feedback positivi come quelli che Milena restituisce alla sua squadra?
Per tornare al tema dell’innovazione, della sperimentazione e miglioramento continuo, possiamo dire che sia che si tratti di una squadra di calcio, di Google o di una qualsiasi altra azienda, una delle prime cose da fare e di cui occuparsi è contribuire alla diffusione di una cultura “safe to fail” in cui le persone possano sentirsi a loro agio anche nell’errore.
Come farlo? Prendendo spunto dalle parole e dall’esperienza di Milena poniamo al collaboratore o al nostro team queste semplici domande: “cosa ha funzionato bene?”, “cosa ha funzionato meno?”, “cosa fare di diverso la prossima volta alla luce di questo?”. Non a caso sono le domande tipiche dei retrospective agili.
Tutto questo però senza dimenticarci che all’interno di una squadra, di un team come anche di una società, una cultura non può essere calata dall’alto ma noi stessi, in prima persona, contribuiamo ad essa incarnandola ed esprimendola attraverso i nostri comportamenti quotidiani – leading by example. E chiudo proprio con un episodio di qualche anno fa raccontato dalla nostra CT quando, a seguito di un paio di sconfitte subite dalla nazionale successive allo splendido risultato conseguito al mondiale, dopo aver riflettuto lei stessa sulla gestione della squadra ha riconosciuto e scelto di condividere i suoi errori con le ragazze. In questo modo non solo ha dato esempio della cultura “safe to fail” ma attraverso la sua autenticità e coerenza, ha anche nutrito la fiducia della squadra nei suoi confronti.
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