EMOTIVAMENTE INTELLIGENTI NON CI SI NASCE: LO SI DIVENTA

Spesso quando parlo di intelligenza emotiva, in un contesto professionale come anche personale, molti faticano a “credere” che sia una capacità che tutti noi, indistintamente da età sesso e cultura, possiamo sempre sviluppare. Alcuni sono convinti che sia una caratteristica genetica: o ci nasci oppure niente da fare.

E’ a quel punto che, a volte, la scienza viene in mio soccorso e trovo utile – almeno così sembra a detta di chi ascolta – spiegare come questo concetto si traduca in certi processi cerebrali… almeno per come li ho capiti io…

Innanzitutto credo sia importante distinguere le principali fasi della risposta emotiva vale a dire: Orientamento, Arousal, e Valutazione. Cosa significano?

In sintesi non appena uno stimolo “entra in contatto con noi”, il cervello si chiede: sta succedendo qualcosa? C’è qualcosa di nuovo? In altre parole cerca di “orientarsi”. A questa prima reazione segue una fase di maggiore attivazione, quella stessa attivazione che in condizioni di stress ci rende “ipersensibili” nei confronti di alcuni stimoli. E’ in questa fase che il cervello si domanda: “è importante?”, per poi proseguire poco dopo con “è pericoloso? È buono o cattivo? Mi fa sentire bene o male?”. Ed è solo al termine di questo processo che compare un’emozione distinta primaria.

Dove sta allora la nostra intelligenza emotiva?

Sappiamo che un arousal eccessivo inibisce l’attivazione dei lobi prefrontali, e proprio questi sono implicati nella regolazione della risposta emotiva finale. In altre parole proprio i lobi prefrontali sono i principali responsabili del modo in cui rispondiamo emotivamente ad uno stimolo. Ed è proprio il “modo” che definisce quanto siamo emotivamente intelligenti. Perché al fatto di rispondervi, anche se non ne siamo consapevoli, non c’è scampo! Anche se qualcuno, molto bravo, ne inibisce l’espressione esterna…Come sappiamo, infatti, ignorare le emozioni non serve a nulla; da qualche parte ci sono sempre, anche se a volte non le vorremmo e tendiamo a negarle o a minimizzarle. Perché siamo “fatti di molecole di emozioni” (C.Pert).

In questo senso se, come dice Dodge (1991), consideriamo questo processo come ineludibile allora ciò significa che le emozioni sono di fatto alla base di tutti i processi di elaborazione delle informazioni, siano esse interne che esterne. La nostra intelligenza emotiva risiede, quindi, non nella risposta geneticamente predeterminata (quella si che lo è!), ma nel modo in cui la esprimiamo. Siamo in grado di esprimere un’emozione in modo ecologico rispetto al contesto in cui ci troviamo? Perché questo si, che possiamo sceglierlo ogni volta. Basti pensare a come uno stesso stimolo, ad esempio un banale ritardo nella consegna di un prodotto acquistato, possa provocare reazioni aggressive in molti, e risposte più adeguate e contenute in altri.

Ma torniamo appunto ai lobi prefrontali.

Non è un caso se soggetti criminali e/o caratterizzati da livelli di intelligenza emotiva particolarmente ridotta mostrino sia una scarsa integrazione interemisferica dei processi sia un elevato metabolismo basale dell’amigdala a fronte di una ridotta attivazione dei lobi frontali.

Cosa succede nel cervello di chi, quindi, riesce a navigare in modo efficace le sue emozioni?

Numerose sono ormai le ricerche sperimentali a sostegno di una maggiore attivazione della corteccia prefrontale, in particolare sinistra. Ma nascono così? No, molti di questi studi sono stati compiuti su soggetti praticanti, qui intesi come meditanti, siano essi veri e propri yogi che persone che hanno intrapreso un percorso di pratica meditativa più o meno esteso.

Tutti allora possiamo imparare. Tutti possiamo, ogni giorno, lavorare per sviluppare la nostra intelligenza emotiva.

La corteccia prefrontale, infatti, non fa altro che mediare la nostra possibilità di scelta tra quelli che sono dei pattern neuronali predefiniti, a livello individuale, culturale, di esperienza di vita, con altri pattern di attivazione neuronale. Conosciamo bene il concetto di neuroplasticità e non ci resta quindi difficile immaginare come, concretamente, sviluppare la propria intelligenza emotiva significa interrompere determinati circuiti di attivazione favorendo la costruzione di altre connessioni sinaptiche, quindi di altri schemi di attivazione.

Cerco di allenare la mia intelligenza emotiva – e non sempre con ottimi risultati! – anche quando mi trovo chiusa nel traffico, quando qualcuno mi taglia la strada o sono appena riuscita a salire sul vagone della metropolitana grazie ad innumerevoli spintoni. Sono convinta che si possa e si debba partire da questi piccoli passi per poi riuscire a saper gestire le proprie emozioni anche in situazioni interpersonali significative ed assai più complesse.

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